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Diario di un crack e dei suoi segreti

di Mario Margiocco

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21 Settembre 2008

Per il giovanotto indiano che gestisce il chiosco di giornali e dolciumi a fianco della portineria di Morgan Stanley, al 1585 di Broadway, e per le tre ragazze asiatiche alla cassa del vicino superstore di Herhsey's (The great american chocolate company), non fa molta differenza se arrivano i cinesi, o la banca americana Wachovia, a Morgan Stanley. Sarà «business as usual»; New York è già piena di cinesi. Così due sere fa, in un venerdì più fresco e ventoso del solito, mentre la grande sede della banca d'affari si svuotava alla chetichella e senza tappa nei bar attorno, si è chiusa la settimana che ha stravolto Wall Street, nell'apparente indifferenza della città delle mille etnie.
Neppure la crisi del '29 cambiò così tanto il volto della New York finanziaria. Ai fallimenti a catena delle banche commerciali in giro per l'America fece fronte una buona resistenza delle "case" di Wall Street, che riuscirono a sopravvivere o addirittura nacquero in quegli anni, come Merrill Lynch, fondata nel '35.
Ora Merrill Lynch ha fatto harakiri e ha venduto a Bank of America. Lehman è fallita, piazzando pezzi importanti con gli inglesi di Barclays; ma anche il suo è un marchio destinato a sparire, dopo quasi 160 anni. Resterà per ora, sotto Bank of America, una Merrill Lynch Wealth Management. Anche Morgan Stanley, un secolo e mezzo alle spalle, ha bisogno urgente di un salvataggio: denaro fresco, per sostituire quello bruciato da titoli immobiliari e nuovi prodotti finanziari, ridotti dall'eccesso di indebitamento a derivati del nulla. Goldman, il gigante e tempio massimo dell'investment banking, è un'incognita.
In attesa dei cinesi, che sono già nell'azionariato Morgan Stanley e potrebbero fare un altro passo decisivo nonostante le perdite subite finora, è dal Potomac che arrivano le grandi novità della settimana. Washington sta mettendo a punto il più grande intervento pubblico nell'economia dopo quelli degli anni '30. Per salvare Wall Street e Main Street: la finanza e la casa degli americani. Trent'anni di deregulation si chiudono con il più massiccio ritorno della mano pubblica che gli Stati Uniti abbiano mai visto (e mai avrebbero potuto immaginare) da tre generazioni. Il costo previsto dall'ex capo economista del Fondo monetario, Kenneth Rogoff nell'intervista con il «Il Sole 24 Ore» di venerdì, va dai 1.000 ai 2.000 miliardi di dollari. Un'ordine di grandezza pari al Pil, la ricchezza prodotta in un anno, di un Paese come l'Italia.
Lehman e Merrill hanno chiuso dopo che una settimana prima, Federal Reserve e Tesoro avevano salvato i giganti semipubblici del mercato dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, mettendoli sotto l'ombrello del bilancio federale. E prima che, gran botto di una settimana terribile, martedì scorso Washington nazionalizzasse di fatto Aig, la più grossa compagnia di assicurazioni (grande quasi quanto Allianz, Generali e Axa messe insieme) gettatasi nell'avventura della nuova finanza.
Un tempo, quando persino i lustrascarpe tifavano per la "casa" di brokeraggio e la banca d'affari preferita, sarebbe stato uno choc e non si sarebbe parlato d'altro. Oggi New York è qualcosa di indefinito, capitale di tutti, mecca del dollaro basso e dello shopping turistico. Ma le due settimane appena trascorse l'hanno segnata, e i vecchi newyorkesi lo sanno.

Prologo: domenica 7 settembre
Dopo l'estate della compiacenza, si sapeva che settembre avrebbe detto una parola definitiva: i contorni delle perdite sarebbero stati più chiari, per tutti i prodotti finanziari.
L'intero investment banking è stato colpito dal morbo di Black-Scholes: il virus nascosto nella formula matematica che porta quel nome e che ha fatto vincere all'Accademia americana tre ambiti premi Nobel. La formula, che si pensava capace di eliminare il rischio dalle transazioni finanziarie, è invece la madre di tutti i guai, con la pretesa di saper individuare il giusto prezzo futuro. Di prevedere il futuro, insomma.
Fannie Mae e Freddie Mac, le due megafinanziarie semipubbliche che garantiscono la liquidità al mercato dei mutui acquistandoli dalle banche e cartolarizzandoli, avevano in scadenza a partire da settembre debiti per oltre 200 miliardi di dollari, su un totale di 1.600. Nei primi giorni di settembre, l'allarme e le telefonate al Tesoro di Daniel H. Mudd, capo di Fannie, e di Richard F. Syron, Ceo di Freddie, poi sostituiti con la nazionalizzazione: i grossi sottoscrittori, americani e internazionali, e fra questi alcune banche centrali, non coprono le nuove emissioni di titoli. Le due società hanno un rapporto mezzi propri/debiti da hedge fund, 1 a 30, e gli investitori vogliono più garanzie. Domenica 7 il segretario al Tesoro, Henry Paulson annuncia la nazionalizzazione, con la possibilità di investire 100 miliardi di fondi pubblici in ciascuna delle due megafinanziarie. Basteranno?
Paulson spiega che devono essere salvaguardati gli equilibri interni: «Un fallimento comprometterebbe la capacità degli americani di ottenere mutui, prestiti per l'auto e altro credito al consumo e altri finanziamenti. E un fallimento sarebbe pericoloso per la crescita e la creazione di posti di lavoro». In realtà, la prima cosa in gioco era la credibilità finanziaria degli Stati Uniti, che da 20 anni offrivano sui mercati internazionali le obbligazioni di Fannie e Freddie con la garanzia implicita del Tesoro. Con la crisi di credibilità finanziaria delle due società, l'unica soluzione era la nazionalizzazione. L'azionariato veniva azzerato, in pratica. Gli obbligazionisti, garantiti.

  CONTINUA ...»

21 Settembre 2008
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